Oltre i confini, nella terra dei Naga dove non esiste il teatro di Nicola Pianzola
Situato al confine nord-est indiano, il Nagaland è un territorio impervio, ricco di tradizioni culturali millenarie. Qui Instabili Vaganti ha portato il progetto Beyond Borders, alla ricerca di una contaminazione tra le danze e i canti locali e le forme performative occidentali.
di Nicola Pianzola
Ultima passeggiata tra le vie sterrate e le scalinate in pietra di Jotsoma, il sole appena tramontato accende di rosso il profilo delle montagne ricoperte dalla foresta vergine. Tempo di partire e, mentre si accendono i primi fuochi della sera, una nota di malinconia mi assale: so già quanto mi mancherà questo luogo che sembra appartenere a un passato perduto. Un ultimo sospiro, come ad accogliere dentro di me l’essenza di questo angolo di mondo a molti sconosciuto, con i suoi scorci bucolici, i suoi odori primigeni, i suoi canti. Mi avvio verso casa con la consapevolezza che tornerò presto. D’altronde anche questo è stato un ritorno: un ritorno in Nagaland, la terra dei Naga, un popolo organizzato in diciassette differenti tribù che abita da sempre queste terre montuose nel Nord Est dell’India.
Un territorio che abbiamo conosciuto quasi per caso, durante una delle prime tappe del nostro progetto internazionale Beyond Borders, nel dicembre del 2021, quando siamo stati invitati a dirigere il primo workshop di teatro in questa regione, in occasione del rinomato Hornbill Festival.
Denominato anche “la terra dei festival“, il Nagaland ospita molteplici attività promosse dai gruppi che, in ogni tribù, si occupano di preservare e mostrare al pubblico le proprie tradizioni culturali, con esibizioni di danze ritmiche, canti, rituali legati alla raccolta, alla caccia, alla guerra, ai passaggi di età e status sociale. L’Hornbill è solo la manifestazione folklorica e culturale più grande.
Siamo in uno Stato del subcontinente indiano molto diverso dal resto del Paese. Il difficile accesso a queste zone ne ha preservato tradizioni, rituali e pratiche di origine tribale, tra cui quella legata ai cacciatori di teste, per la quale i membri delle tribù mostravano fieri le teste dei nemici sconfitti, all’entrata dei villaggi, ponendone lo scalpo sulle proprie lance, e lavorando monili e collane raffiguranti il numero dei crani recisi agli avversari. Solo l’arrivo degli inglesi e di conseguenza l’introduzione del cristianesimo, ha contribuito a mettere al bando alcune pratiche e ha portato a poco a poco ad abbandonare alcuni rituali. Basti pensare che, in Nagaland, la maggior parte della popolazione è cristiana, a maggioranza battista, e che oggi ogni clan ha la sua parrocchia. Questo spiega perché Kohima, trafficata capitale, è costellata di chiese, i cui campanili svettano sulle case costruite sui dirupi della montagna.
Con Tafma tra arte e danza
Affascinati dalla ricchezza e dalle origini di questa cultura, incuriositi dalla scarsità di informazioni, documentazione e letteratura a riguardo, e colpiti dalla de- dizione dei partecipanti al nostro primo workshop, abbiamo deciso di strutturare una tappa di ricerca e cocreazione più lunga, collaborando con Tafma – la Task force of Music and Arts fondata dal Governo del Nagaland con la missione di promuovere la cultura naga – partner del nostro progetto.
Insieme a Tafma abbiamo scelto, prima di tutto, gli artisti naga che avrebbero partecipato a questi sette intensi giorni di lavoro, improntati a ricerca, scambio di tecniche e conoscenze, confronto interculturale sul piano artistico e performativo. Volevamo concentrarci su un piccolo gruppo, proprio per agevolare la reciprocità e accogliere gli artisti naga per la successiva tappa in Italia, come già nel 2022 avevamo fatto, invitando le Tetseo Sisters – quattro sorelle cantanti, star della musica tradizionale naga – al nostro Festival PerformAzioni. La scelta è ricaduta su Mengu Suokhrie, nota cantante con la propensione alla ricerca e alla contaminazione musicale, Ethel Wangha, giovane danzatrice, Akehoto Yepto, giovane coreografo fusion, che lavora tra danza tradizionale e contemporaneità.
Ciascuno dei partecipanti appartiene a una diversa tribù ed è pertanto depositario di un differente background tradizionale. Nel nostro team, guidato dalla regista Anna Dora Dorno, ideatrice e direttrice del progetto, abbiamo invitato per l’occasione, una giovane coreografa: Maria Stella Zangirolami. Il fine di questa nuova tappa è infatti quello di immergerci nella cultura naga, carpirne le origini, gli sviluppi, per aprire un dialogo con la nostra sperimentazione nel contemporaneo. Ogni mattina, svegliati dal canto del gallo, saliamo la ripida scalinata in pietra che porta al Rcempa (Regional Centre for Excellence in Music and Performing Arts), un auditorium dove ha sede il nostro partner e dove lavoriamo con il gruppo internazionale di artisti. Decidiamo di iniziare con il nostro training ritmico
e vocale, proprio per creare un terreno comune dove iniziano a poco a poco a emergere passi tribali, legati alle diverse danze naga. Sono innumerevoli, e ci soffermiamo su ogni passo per conoscerne le origini e l’utilizzo. Le danze tradizionali avvengono in gruppo, molto spesso tenendosi per mano, e rispettano un an- damento circolare, poiché sono nate intorno a un fuoco. Rimaniamo subito affascinati dalla danza di guerra, appartenente alla tribù dei Konyak, i guerrieri per eccellenza del Nagaland, di cui Ethel fa parte. Questa danza viene praticata solo dagli uomini e ce la mostra Akheoto.
Quello che attira la nostra attenzione è l’uso della voce, che accompagna molti passi, fino a un urlo finale. Diventa subito un elemento che sviluppiamo nel lavoro e che ci porta a creare un’azione estremamente fisica, dove i performer alternano, ai passi marziali e ritmici di questa danza, corse e salti, come a sfidare un limite, un confine.
Il significato di un canto
Anche la Butterfly dance, che replica i movimenti del volo di una farfalla, diventa da subito un elemento condiviso e rielaborato che porta a sviluppare una danza in coppia accompagnata da un canto. Canto che si fa subito presente grazie alla sua straordinaria ricchezza di sfumature. I canti naga accompagnano, infatti, molte delle danze e delle azioni e variano in base al contesto e al luogo in cui sono eseguiti. Solitamente sono accompagnati dal tati, uno strumento a corda tradizionale tra i più diffusi. Rimaniamo estasiati quando ascoltiamo il canto di un musicista che intervistiamo per la realizzazione del film-documentario di questa esperienza, mentre i suoi armonici vibrano e si propagano dal cranio entrando in risonanza con il suono del suo strumento monocorda.
«Se canto in montagna uso una voce diversa da quella che uso accompagnando un lavoro nel campo, o che utilizzo come un richiamo per sapere se c’è qualcuno nei fitti boschi dall’altra parte della collina» ci dice. Questa è proprio la funzione del canto naga, un’azione concreta, come lo è la danza.
«La danza è un’azione», ci confida il capo di uno dei gruppi folklorici della tribù Angami, anch’egli intervistato. Quando chiediamo a Mengu il significato di un canto, spesso ci spiega che non ci sono parole definite nella sua struttura, ma sonorità che cambiano, o una parola che non ha un vero e proprio significato ma che nasceva da sonorità binarie che accompagnavano un movimento, un gesto, un’azione appunto. Immersi in tale ricchezza performativa, i giorni scorrono rapidi e abbiniamo alle sessioni di lavoro in sala delle spedizioni in villaggi rurali per conoscere gli usi e le abitudini dei Naga. In questi contesti suggestivi, grandi spazi circolari pavimentati in pietra con sedute di sasso, dove si riuniscono i membri della comunità, sviluppiamo delle azioni performative, a contatto con elementi naturali, pietre e lunghi bastoni di bambù, che entrano a far parte di una struttura scenica in divenire. Anche per questo motivo scegliamo come spazio per la restituzione finale, aperta al pubblico di giovani studenti e alla comunità, il piccolo anfiteatro in pietra all’esterno dell’auditorium. Proprio per ricreare quel “cerchio in espansione”, per citare Enrico Piergiacomi, filosofo che ha accompagnato il nostro progetto Beyond Borders sin dall’inizio con una contestualizzazione teorico- filosofica. Quel cerchio che ci riporta intorno a quel fuoco primordiale, fulcro dell’incontro e della condivisione tra le diverse tribù.
Quando il teatro crea l’“eutopia“
Il pubblico accede alle sedute circolari accolto dal canto dei performer posizionati di fronte a giganteschi massi di pietra che delimitano lo spazio circolare. È una delle prime performance teatrali alle quali assiste, dato che, mentre la musica e la danza sono molto sviluppati in Nagaland, il teatro lo è poco come arte, e non esistono edifici teatrali. Anche questo aspetto ci riporta alle origini, e in quel piccolo anfiteatro, dove i passi tradizionali si fondono ai movimenti della danza contemporanea, dove nascono testi originali che tessono una drammaturgia di movimenti, azioni, canti e musica, trova spazio il “teatro”, come luogo buono di espressione di diverse culture, tradizioni, idee, emozioni. Si realizza per un attimo la nostra “eutopia”.
I partecipanti escono fortemente arricchiti da questa esperienza, come a scoprire che c’è una maniera di portare nella contemporaneità e nella vita quotidiana il proprio bagaglio tradizionale performativo, la propria identità. Non tutti gli artisti naga, infatti, riescono a compiere questo scarto e portare la propria ricchezza culturale nel loro fare artistico. Ethel ci confessa che, come danzatrice, si ritrova per la maggior par- te del tempo a realizzare brevi video per Tik Tok o Instagram, seguendo il trend della cultura K-pop, che sembra attecchire in Nagaland più di quella indiana. Lo stesso Akehoto compone le sue coreografie per le dance battles tra crews. Vi è insomma una forte invasione di una cultura contemporanea che rischia di cancellare e appiattire questo tesoro culturale. Farsi promotore come artista di un’identità naga, come sta facendo Mengu, attraverso i suoi progetti musicali, e rappresentarne la cultura in progetti internazionali di questo tipo, è una delle strategie che abbiamo individuato insieme a Tafma per valorizzare e far conoscere la cultura naga anche in Italia.
Ormai è buio, faccio rientro nella guesthouse dove mi accoglie il caminetto acceso e decorato da piccoli teschi di scimmia, veri, mi sdraio sul materasso, duro come le tavole di legno che abbiamo visto visitando i villaggi rurali e dove gli abitanti dormivano in maniera comunitaria. Ripercorro nella mia mente le tante esperienze acquisite in questi giorni come a farne tesoro: gli intensi momenti di lavoro, le persone incontrate, tutte di una gentilezza e generosità estrema, ritmi e suoni che sento ormai appartenermi. Penso già alle future tappe e al prossimo ritorno in Nagaland, uno dei luoghi più remoti che abbiamo raggiunto col nostro teatro. D’altronde è proprio questo il senso di Beyond Borders: spingersi con la propria arte oltre i confini. ★